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Sarà in sala dal 29 novembre Bohemian Rapsody, film che segue i primi quindici anni dei Queen, dalla formazione al Live Aid del 1985. La direzione del doppiaggio è stata affidata a Marco Guadagno, che confessa che: «Io avrei continuato a lavorarci all’infinito, mi piaceva stare in quella roba lì. E quando potevo trovare un qualche errore, una piccola sbavatura, lo sottolineavo pur di restare in sala. Ma a un certo punto, come mi insegnò Pupi Avati, le cose a cui lavori prendono una loro vita propria e tu devi lasciarle andare.

Comunque alla fine lo avrò visto dieci, dodici volte e ogni volta mi commuovo. Non sono il solo però: l’approccio delle persone che entravano in sala era un misto di eccitazione e paura di fronte a cotanta roba. C’era la voglia, il desiderio di partecipare, con diversi colleghi che mi hanno chiamato per essere nel film anche solo con una battuta. Ma anche il peso della responsabilità, che rischia di frenarti. Ecco, in sala abbiamo respirato questi due tipi di emozioni. È stata una lavorazione faticosa, perché avevamo dei tempi molto stretti. Ma c’era grande entusiasmo da parte di tutti..Io ho amato questo film ancora prima di vederlo perché Freddie Mercury è uno dei miei performer preferiti, quindi tenevo molto a farlo e ci tenevo che venisse bene: non mi sono risparmiato e non ho risparmiato chi ha lavorato con me.

Ho cercato di restituire al meglio quello che Bryan Singer ha raccontato in Bohemian Rapsody: un Freddie Mercury con la sua natura fuori dai canoni, ma anche con la sua malinconia, la sua fragilità.

Passatemi una digressione da grande appassionato di ciclismo: Freddie Mercury mi ricorda Marco Pantani. Perché quando arrivi in cima al mondo, quando sei il numero uno, nessuno ti può capire, l’angoscia di essere solo al comando è tremenda. Il numero due ha sempre un obiettivo da conquistare, il numero uno può solo tornare indietro, non c’è più nessuno davanti a lui… Freddie Mercury era talmente avanti nelle sue genialità e questa cosa lo rendeva molto solo. E questo è un aspetto molto indagato in Bohemian Rapsody, ed è secondo me la parte più interessante.

Ne ha scritto anche il cantante lirico Giacomo Lauri-Volpi nel suo “Cristalli viventi”: un artista per regalare al proprio pubblico delle folli intuizioni deve essere solo, per arrivare a un certo livello bisogna accettare un grado di diversità dal resto delle persone, una non omologazione totale. A volte il successo ti allontana dalla realtà e ti porta a cercare qualcosa che ti mancherà sempre, ed è una dannazione che Freddie Mercury rappresenta piuttosto bene. Ecco, andare rimettere tutto ciò nel doppiaggio è stato difficile. Perché abbiamo dovuto lavorare sulla sfumature, sulla sillabe, per costruire un personaggio così sfaccettato. E anche se avrei continuato a lavorare per sempre su questo film, devo dire che alla fine sono molto soddisfatto di come è venuto.»