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Ora che gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente, il momento è propizio per recuperare Il processo ai Chicago 7, l’ultimo film di Aaron Sorkin (sceneggiatore del pluripremiato West Wing, fra gli altri) uscito prima al cinema e poi su Netflix.

I cosiddetti “Chicago Seven” furono trascinati alla sbarra in seguito a una serie di incidenti che risalivano all’agosto del 1968, in un processo che si presenta subito viziato. Il film ricostruisce, sulla base degli atti processuali, quanto avvenne in quel tribunale; ma Sorkin ne fa soprattutto una metafora che risuona di un monito alle violenze della polizia a pochi mesi dall’uccisione di George Floyd.

Il film ha ricevuto numerosi apprezzamenti: per Laura Puglisi di iO Donna, «il legal drama di Aaron Sorkin è da non perdere».

Fabio Ferzetti sull’Espresso lo definisce un «courtroom drama parlatissimo e spesso molto godibile che però tiene costantemente il piede in tre scarpe. Il contesto politico, il processo vero e proprio, forse la parte migliore del film, e i retroscena, spesso un poco didascalici.»

Mentre su Esquire Lorenzo Costaguta sottolinea il «buon lavoro (che il film fa) nello spazzare via immediatamente alcune storture storiche di fondo (relative al 1968)».

Più critico Gabriele Niola per Wired, secondo cui «Questo secondo film da regista di Aaron Sorkin è tecnicamente impeccabile ma l’idea che lo muove molto meno. Non è difficile infatti essere d’accordo con il suo punto di vista. Fare però di una storia vera un fumetto, esasperare ragioni e torti e trattarla come un fatto di finzione, mette tutta l’operazione su un terreno morale parecchio discutibile. […] Sembra voler raccontare i fatti come sono andati, ma poi si concede una visione parziale fino alla macchietta. Romanza senza pietà distribuendo torti e ragioni con la vanga invece che con il pennello.»

Guia Soncini, su Linkiesta, ne dà una gustosa lettura calata nell’Italia del 2020: «C’è un litigio, verso la fine, tra Abbie Hoffman, il figlio dei fiori che vuole la fine della guerra in Vietnam, e Tom Hayden, il fratello separato alla nascita che aveva portato sulle spalle la bara di Bob Kennedy. Tom – che, quando dice «Non ho tempo per la rivoluzione culturale, distrae dalla rivoluzione, quella vera», pare uno del Pci – accusa Abbie d’essere responsabile di tutte le future sconfitte della sinistra (ehi, è un film ambientato nel 1970 o un editoriale del 2020?), sinistra che adesso tutti associano alle puttanate hippie invece che alle questioni serie; e soprattutto di non volere davvero la fine della guerra: se finisce la guerra si spengono i riflettori su Abbie Hoffman.»

Infine Clara Mazzoleni, su Rivista Studio, annota come «Chi non sopporta lo stile del regista e sceneggiatore Aaron Sorkin lo accusa di riproporre in ogni suo lavoro gli stessi “tic”: personaggi dotati di un idealismo così puro da risultare disumano, discussioni politiche concitatissime che si scaldano fino a raggiungere un climax in cui uno dei litiganti grida un concetto chiave (e poi cala il silenzio), prevalenza di uomini che si parlano addosso pontificando di democrazia e libertà, ruoli femminili marginali. Se The Trial of the Chicago 7, funziona benissimo, è proprio perché siamo nel luogo in cui questi “fastidiosi tic” trovano piena soddisfazione, ovvero il famoso processo dei 7 di Chicago, conosciuto come uno dei più verbosi, snervanti e paradossali della storia.»

Insomma, non resta che vederlo per capire se quello di Sorkin, sceneggiatore di lunga fama e qui anche regista, è l’ennesimo successo o uno dei primi passi falsi.